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vita artificiale e morte naturale

03 lunedì Set 2012

Posted by DonneViola in Uncategorized

≈ 1 Commento

Tag

cardinale martini, carlo maria martini, gesto, malattia, santa sede

Da tre giorni in televisione si rincorrono le notizie sulla morte del Cardinale Martini!
Il cardinale, malato da tempo, ha rifiutato, in condizioni di lucidità, l’accanimento terapeutico!

Il portavoce della Santa Sede afferma che la scelta del Cardinale è in perfetta linea con gli insegnamenti della Chiesa e che ulteriori cure, praticate già da circa un decennio, non avrebbero prodotto esiti positivi per il sacerdote malato di Parkinson!

Proviamo a togliere il sostantivo e considerare solo il Sig. Carlo Maria Martini, uomo da tempo malato di Parkinson e per anni sottoposto alle cure del caso senza beneficio.

Cosa direbbe la Santa Sede?

Contro chi si scaglierebbe l’anatema del portavoce del Papa?

Contro l’uomo?

Contro i medici?

Contro i familiari?

Forse contro tutti.

Qualcuno potrebbe obiettare che la malattia da cui era affetto, patologia degenerativa del sistema nervoso, non offrisse chanses per cui in sintesi. meglio morire che vivere demente.
Si suppone che anche i familiari abbiamo approvato la sua scelta e forse, ribadisco forse, nel caso in cui quell’uomo fosse stato già affetto da demenza avrebbero scelto per lui il non accanimento terapeutico.

C’era una giovane donna, non suora, nè badessa, figlia di una normale coppia di genitori che per anni le hanno parlato senza che lei facesse un solo gesto o li ascoltasse per cinque minuti, che per anni non ha rivolto loro uno sguardo o un sorriso, che per anni non ha mangiato seduta a tavola con loro, che per anni non ha rivolto loro neanche mezza sillaba.

Ne suora nè badessa nè figlia ribelle ma solo una figlia in stato vegetativo permanente senza speranza alcuna di recuperare il minimo contatto con la realtà.

Un viso spento e vitreo, un corpo inerme in balia di tubi e macchine, di sonde ed aghi, sospeso nel limbo dei non vivi e dei “praticamente” morti, che non ha avuto possibilità, come Carlo Maria di scegliere come e quando morire.

Lo ha fatto per lei,

chi le aveva dato la vita e nessuno si è posto la domanda di quanto difficile sia a volte per un padre scegliere per il proprio figlio.

Accuse, insulti, la Chiesa in rivolta contro un uomo a cui il santo Tribunale dell’inquisizione, secoli dietro, non avrebbe risparmiato di certo il rogo in quanto non rispettoso della vita di un essere umano.

C’era anche un uomo, attivista politico che si ammalò in un’età in cui i nostri figli corrono dietro ad un pallone su un campo di calcio.
Una vita ad inseguire la vita se vita significa “respirare“.

Poi un giorno la sua vita si ferma e ricomincia quando un piccolo taglio sul collo ed un tubo cuffiato collegato ad una macchina gli consentono di respirare senza che neanche uno dei suoi muscoli si contragga per propria scelta!

La macchina decide quando funzionare, quando andare in allarme e quando mandare tanti segnali sonori latori di mille messaggi..pressione diminuita, pressione aumentata, volume inspiratorio diminuito ed altro.

La vita dell’uomo diventa un insieme di beep elettrici e lui decide che non vuole più stare a quel gioco che aveva ormai assecondato per anni!

Scrive lettere, chiede aiuto per molto tempo ma invano.

Per i depositari della saggezza e per la santa Chiesa lui respira e quindi vive!
Solo un uomo, al di fuori della cerchia di coloro ai quali aveva urlato la sua disperazione, dotato di “pietas” decide di aiutarlo e libera la sua gola dal quel tubicino fastidioso accompagnandolo in un sonno sereno che per anni i beep di quella macchina non avevano assecondato!

Anche qui accuse, insulti.

La Chiesa di nuovo sconvolta, il medico accusato e per poco condannato.

Ora mi chiedo e chiedo dove sia la differenza tra queste tre vite!
Nel tipo di malattia?

Nell’avere gli occhi chiusi o aperti?

Nel parlare o nel tacere?

Dove la saggia Chiesa ha perso di vista il minimo comun denominatore?

Forse quando ha pensato che Carlo Maria essendo cardinale non fosse più uomo?

O quando la ragazza e l’uomo non erano mai stati suora o prete?

Questo non è dato conoscere a noi poveri uomini che della vita facciamo dono prezioso e che viviamo degnamente nel rispetto della stessa; che la consideriamo tale quando ci è data facoltà di agire, interagire e pensare, muoverci liberamente nello spazio e nel tempo che ci è concesso e quando siamo fermamente convinti che la morte altro non è che un processo naturale della vita stessa!

Esiste una vita e una morte naturale.

Nessun testo parla di vita artificiale perchè non esiste morte artificiale, almeno per noi uomini mortali e non sepolcri imbiancati!

Nina

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Come fragili foglie

21 giovedì Lug 2011

Posted by DonneViola in L'essenziale

≈ 3 commenti

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malattia, ospedali oncologici

Sono passati dieci anni da quel lungo periodo trascorso dentro queste mura, dieci lunghi anni, non è cambiato molto,sì, le corsie hanno pareti colorate, le stanze sono più piccole, intime,soli due letti.alcuni volti sono nuovi, altri già noti, ma c’è una cosa che li accomuna, un filo invisibile che lega il passato al presente,le persone di ieri a quelle di oggi,giovani, vecchi,donne , uomini, che non si sono mai visti prima sono uniti da un forte legame di solidarietà, condivisione, affetto.

Tutti combattono in diverse maniere,con diversi metodi,differenti atteggiamenti, lo stesso “nemico”, non tutti riescono a vincere, molti sono i caduti nella battaglia, ma chi riesce ad andare avanti porterà sempre dentro al cuore, l’enorme,immenso valore ricevuto in quei giorni, in quei mesi.Ricchezza che riceve anche chi non è direttamente coinvolto nella lotta, ma accompagna il proprio parente, amico o semplice conoscente.

Vivere le giornate all’interno dei reparti di un qualsiasi ospedale oncologico fa riflettere molto sulla fragilità della vita.Osservare, aiutare i malati, vedere i loro sguardi ora impauriti,spaventati,talvolta umiliati dalle condizioni fisiche.Vedere anche il coraggio con cui queste persone affrontano la dura, terribile malattia, la loro voglia di vivere,ecco, tutto ciò fa capire quanto, molto spesso, l’uomo perda il vero senso della realtà.

Possiamo assomigliare la vita di ognuno di noi ad una foglia attaccata al ramo,può resistere alle tempeste,alla grandine,ai fuochi che qualche piromane appicca.

Ma può bastare un alito di vento per farla staccare dal ramo e volar via.

Carla Concas

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Morte di una giovane precaria.Ricordo di Silvia

16 giovedì Giu 2011

Posted by DonneViola in La forza delle Donne

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lavori usuranti, malattia, precari

di Stefania Bufano

Una volta, in un commento da qualche parte, ho letto che “I lavoratori telematici non hanno i calli alle mani”.

È vero. I lavoratori telematici sottopagati, o a cottimo, o co.co.co, o co.co.pro, o altro, in compenso, li hanno dentro la testa. Non sono calli da poco: sono calli che non si vedono e che perciò non esistono per nessuno, se non per il lavoratore che se li porta dentro per portarsi a casa cinque euro all’ora, qualche mese qui, qualche mese là. Fino a quando – magari all’ennesimo lavoro telematico che non lascia segni sulle mani – non gli viene l’esaurimento nervoso, o si suicida, o si ammala, allora diventano “calli” anche per qualcun altro. Di famiglia.

Ci sono lavori usuranti che ti usurano dentro. Ci sono cose che in un certo senso, anche se tu sei pur vivo, ti ammazzano. Ci cose che non si possono dimenticare.

Ricordo Silvia, una mia collega di lavoro (di lavoro… Insomma: uno dei tanti lavori) che veniva a lavorare anche se malata. Molto malata. Lavorava “a cottimo” (cottimo “legalizzato”, naturalmente) insieme a me: altrimenti forse non ci sarebbe venuta, in quel periodo, a lavorare. Almeno gli ultimi due mesi. Almeno io così penso ora… Avrebbe potuto… Avrebbe potuto… Non so. So solo che ha lavorato fino a quindici giorni prima di morire. Quindici giorni: tanto quanto è durato il suo ricovero in ospedale per l’intervento chirurgico e… Quindici giorni: pari ai quindici giorni di vita che le erano rimasti. Silvia è passata dal lavoro all’ospedale. Dall’operazione a un brevissimo risveglio, un brevissimo saluto ai suoi cari. Poi il coma e la fine.

Era maggio, o forse già giugno. Il lavoro era nuovo per lei. Aveva iniziato da poco tempo. Era così contenta quando era arrivata! Non lo voleva perdere – già poco dopo essere arrivata – il lavoro. Non voleva perdere la “produzione”. Mentre intanto perdeva la vita e non lo sapeva. Eravamo ormai sul finire dell’estate. Silvia, che prima lamentava solo qualche disturbo, iniziava a stare abbastanza male e a fare esami medici che, passavano i giorni, e sembravano diventare sempre più “urgenti”. Anche se cercava, sul lavoro, di tenere un atteggiamento composto ed equilibrato, informando noi colleghi del succedersi degli eventi, di esami medici che aveva fatto, di quelli che doveva ancora fare… Qualcuno fra noi iniziava – sotto sotto – a preoccuparsi, pur cercando di non lasciarlo trapelare. Principiava l’autunno. Anche Silvia forse aveva iniziato a temere davvero qualcosa. Una mattina, presa tra il vortice del lavoro e la serie di esami medici urgenti che sembravano non avere mai fine, trovandosi a dover parlare al telefono in ufficio davanti a noialtri, forse a seguito dell’aver appena appreso di un ulteriore e particolare accertamento, che non faceva ben sperare, sbottò: “Ma insomma! Ma cosa pensano! Che io abbia un tumore!”. Forse noi colleghi ci fermammo un attimo, in uno strano silenzio. Chi schiacciò il tasto “pausa”, chi “stop”. Poco dopo, la battitura sui tasti dei nostri computer riprese, e così anche l’audio che usciva dalle nostre cuffie. “Play”.

*

Silvia veniva la mattina in ufficio che non aveva dormito: non poteva più dormire distesa. Ormai dormiva – il poco che dormiva – seduta su una poltrona, ci diceva. Non poteva mangiare quasi più niente: come mangiava vomitava. Il suo stomaco non voleva più niente dentro, lo rifiutava. Con qualche pezzetto di banana poteva ancora farcela, diceva ancora Silvia. E continuava a lavorare. Perdio! Silvia stava male e lavorava. Silvia stava molto male, e lavorava. Silvia stava morendo e lavorava! Doveva pagare l’affitto. Il mese finisce per tutti e non tutti, tutti i mesi, possono portare i soldi a casa.

A momenti, aveva iniziato a scappare in bagno. Una volta la trovai che, con una salvietta da bagno, vedendomi arrivare, in fretta stava asciugandosi o coprendosi la bocca. Credo che le risalisse su, dallo stomaco, una schiuma.

I succhi gastrici, nei continui rigurgiti, le avevano come bruciato tutto, dallo stomaco in su, fino all’esofago. Già di costituzione così minuta, così magra, era sempre più magra, Silvia!

*

Da qualche parte una volta ho letto, riguardo ai caduti italiani in guerra, o anche caduti in “missioni di pace”, qualcosa come: “È triste. È una sporca guerra, ma qualcuno la deve fare”, lavandosene le mani. È tutto un lavarsene le mani: coi figli degli altri. Sulla pelle degli altri.

Silvia non era andata in guerra: faceva – come molti fanno – due (o anche tre) lavori diversi per mantenersi. Non stava così male all’inizio: la vedevo solo sempre molto stanca, e ciò in fondo è “normale”, se uno fa più o meno sempre due o tre lavori per volta. Per anni. Aveva calcolato di poter lasciare l’altro “lavoro” e invece di correre di qua e di là, farne solo uno. Semplice e giusto ragionamento. Correva da una parte all’altra per fare un lavoro “normale”. Lavoro “normale” in cui non è previsto ammalarsi. Voleva fare ancora tante cose. Voleva finire di laurearsi. Le mancava solo la tesi. Io non ho fatto in tempo a conoscerla un po’ meglio, ma penso che non si fosse ancora laureata non certo perché impreparata, ma a causa sempre del lavoro. Era esperta di cinema e fumetti. Sapeva tutto di cinema e fumetti. Quando parlava di queste cose sembrava un’enciclopedia vivente. Potevi chiederle qualsiasi cosa. Era il novembre dell’anno 2001 e Silvia aveva trentaquattro anni. Oggi ne avrebbe avuti quarantatré.

Tutta la vita davanti

Lungo e doveroso PS.

Qualche giorno fa, in un programma televisivo, ho visto due signorotti in giacca e cravatta come ospiti (ospiti seduti sulle loro comode sedie, naturalmente) che parlavano di “lavoro” che – con tutta evidenza – non conoscevano, non conoscono e non conosceranno mai (a meno che, come in un bel film comico, ci siano mandati a calci in culo, al “lavoro”, una buona volta). Di uno ho rimosso quello che ha detto (poco dopo ho dovuto interrompere l’ascolto, altrimenti mi restavano solo due possibilità: o vomitavo o spaccavo qualcosa), dell’altro (d’ora in poi: Signore Giacca & Cravatta) ricordo una serie, nel giro di pochi minuti, di sciocchezze di una gravità inaudita e con la solita logica “rovesciata”: insomma, perversa. Cose come: “Il lavoro sottopagato è sempre meglio che non lavorare” (ma certo: fallo tu, e per una ventina d’anni, magari, e poi ne riparliamo… Eh?). Poi il Signore Giacca & Cravatta continuava, naturalmente, con le sue Somme Serie Banalità e Idiozie in Stile ho Sentito Dire Che e/o Le Statistiche Dicono Che. Tipo: Tutti Oggi Vogliono Studiare Ma non si Può (Eccetto Mio Figlio, naturalmente); Mancano i Lavoratori Nell’Artigianato e Gli Italiani Che non Vogliono Più Fare Certi Mestieri (Eccetto Mio Figlio Che Si Può Permettere Ben Altro, modestamente). Il Signore Giacca & Cravatta, infatti, non sa che il Lavoratore Sottopagato Meglio Che Niente va: dal lavoratore africano, o romeno, o polacco, o d’altra nazionalità – che qui quasi crepa di fame o crepa sotto le bastonate di qualcuno andando a raccogliere i pomodori, o su qualche cantiere edile o altro – al lavoratore/lavoratrice italiano/italiana come Silvia che va a lavorare anche Gravemente Malata, Fino a Poco Prima di Morire. Perché bisogna essere chiari e tondi: Sono questi i Lavori Sottopagati impliciti ai discorsucci del Signor Giacca & Cravatta Meglio Sottopagati Piuttosto Che Niente.

Infine, una doverosa preghiera ad alcuni giornalisti: non invitate più di questi Inutili Signori Giacca & Cravatta nei vostri programmi. I lavoratori sottopagati “regolarmente” non vanno a lavorare sottopagati “regolarmente” per sentire, a sera, sciocchezze da Ignoranti (oppure Perversi, a scelta) Eleganti. Grazie.

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